Introduzione
L’Essere Umano è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una creatura alquanto paradossale, dai processi mentali singolarmente imprevedibili, che ne esaltano l’unicità del soggetto. E’ altresì vero come, se si analizzano intere masse dell’animale Uomo, le reazioni collettive ad un particolare stimolo siano prevedibili entro un certo limite d’approssimazione.
Questo concetto è alla base di tutto il sistema sociopolitico moderno (e non solo), che si basa principalmente sul condizionamento delle masse dietro stimoli mediatici di vario genere. Invero, la medesima, sempre più universale, applicazione di tale strumento culturale è stata fonte di ispirazione per molteplici astrazioni letterarie, a partire a dir poco dagli anni ’40. Indimenticabile a tal proposito lo sviluppo della “Psicostoria” nell’opera Asimoviana, ripetutamente dipinta con la calzante metafora molecolare della teoria cinetica dei gas… “così come i moti della singola molecola sono assolutamente imprevedibili a priori, le azioni di un essere umano sono totalmente al di fuori della previsione matematica. Ma, allo stesso modo, così come è statisticamente prevedibile il comportamento di masse molecolari, è statisticamente prevedibile il comportamento di masse umane.”
La possibilità di inquadrare in precise equazioni statistiche la previsione delle azioni umane collettive resta, ovviamente, nel puro campo della fantascienza, ma è innegabile che, al di fuori della stretta matematica, è possibile effettuare tale previsioni a livello concettuale, o forse più correttamente filosofico. In campo pur scientifico, quanto può esserlo per definizione l’analisi umanistica della psicologia, è altresì vero come si studino le reazioni dell’uomo in risposta a particolari stimoli, e come esse vengano quantificate e classificate entro certi standard ristretti.
In maniera similare, seguendo la stessa linea concettuale, possiamo analizzare le più disparate correnti culturali passate, individuando quali siano stati quegli “stimoli” che hanno portato intere società a certi usi piuttosto che ad altri. Questo, anzi, è enormemente più semplice che non effettuare una previsione, in quanto l’analisi a posteriori è supportata da fondamenta preconcette di studi e valutazioni ben consolidate, tali, spesso, da divenire bagaglio nozionistico medio.
Seguendo tale linea, affronteremo l’argomento in questione, cercando di porre solide basi di ragionamento allo scopo ultimo che ci poniamo, ovvero l’ambiziosa intenzione di poter affrontare ed analizzare una caratteristica comune dell’uomo moderno, quella che è divenuta quasi una necessità psichica, in taluni casi persino una patologia. Parliamo della “fuga dalla realtà”, dei suoi aspetti positivi e negativi, ed in particolare delle sue forme applicate all’ambito che stiamo trattando, quello del Gioco di Ruolo.
Saremo d’altronde coadiuvati, in tal proposito, da molteplici casi da porre ad esempio, ed è opinione concreta la supposizione di come gran parte di voi che state leggendo troverete in queste pagine riscontri nella vostra stessa esperienza, tanto personale quanto in passate interazioni con altri individui.
Premettiamo, infine, che sarà portato ad esempio un discorso basato sulla religione e religiosità, argomento che sottolineiamo immediatamente sarà trattato unicamente sotto l’aspetto logico-scientifico. Non ci poniamo minimamente intenzione di valutare una religione, o di dichiararne l’effettiva veridicità dei contenuti, né tantomeno il contrario. Ciò è ben al di fuori degli obiettivi di questo saggio, ed, anzi, costituirebbe unicamente una deviazione inutile rispetto alla nostra linea di conduzione. Non si intende dunque urtare la sensibilità di nessuno, tanto che non sarà riportato alcun esempio specifico, e del punto si tratterà unicamente sul piano generico, senza chiamare in causa alcun culto religioso in particolare.
I fondamenti psicologici dell’astrazione intellettuale
Veniamo dunque al punto, e cerchiamo di identificare le basi che hanno, nella storia del mondo occidentale, costituito i punti cardine per l’esplicazione di massa di quello che è un desiderio insito nell’animo umano. Invero, le fondamenta primarie, le troviamo comuni in qualsiasi cultura, in qualsivoglia culla intellettuale.
Evoluzionisticamente parlando, è opinione comune della collettività scientifica che una delle più evidenti differenziazioni dell’essere umano rispetto al mondo animale sia la capacità di pensiero astratto sin dalle sue forme più materiali ed immediate. Questa è, a dire il vero, una approssimazione di comodo, in quanto si possono porre in discussione diverse eccezioni, ma al fine del nostro ciclo di ragionamento, questa approssimazione è più che sufficiente.
E’ plausibile quindi come, sin dal primo momento in cui le forme più primitive di essere umano siano state capaci di astrazione intellettuale, l’uomo sia stato istintivamente portato ad immaginare, potremmo dire a sognare, materializzazioni di desideri, di necessità in un tale istante non raggiungibili, o non soddisfabili. Tale capacità è, del resto, quella che ha consentito ogni genere di sviluppo tecnico, a partire dall’apprendimento nell’uso di utensili a supporto dei limitati mezzi biologici che la natura ha messo a disposizione all’uomo.
Non deve essere trascorso molto da quello stadio a quello successivo, infinitamente più ampio, che nell’astrazione del pensiero andava a cercare non la soddisfazione di un bisogno materiale e ben definito dell’immediato, ma la soddisfazione di un desiderio più intimo, intellettuale, potremmo dire sentimentale. A riprova di ciò, possiamo addurre il primo e più palese esempio, quello delle religioni. Esse sono, per altro, una delle maggiori riprove di quel concetto sull’uniformità comportamentale umana che abbiamo introdotto sin dalle prime battute di questo testo. Nate in innumerevoli tempi e luoghi differenti, ognuna cresciuta da ben distinti humus emozionali, ciascuna presenta parallelismi totali con tutte le altre in ognuno dei suoi fondamenti basilari, primo fra tutti la Morte, o più precisamente la fuga da essa.
Tutte le religioni, infatti, sin dalle più arcaiche, si basano sul culto della mortalità, forse prima ancora dell’antropomorfizzazione divina di costanti naturali. I primi riti di cui si hanno tracce, infatti, vertono sul trattamento dei defunti mediante sistemi che esulano completamente dall’utilità e dall’efficienza in ambito di mera sopravvivenza, e sono anzi in tale contrasto con questo primario istinto animale da evidenziare chiaramente come la formazione di credenze astratte abbia spinto l’uomo a comportamenti, dal punto di vista strettamente terreno, d’economia evolutiva, irrazionali.
In Religioni relativamente più recenti troviamo addirittura la creazione totale, ed incredibilmente articolata e complessa, di interi mondi immaginari, pantheon sconfinati di creature ultraterrene, non raramente, per altro, antropomorfizzazioni, come accennato prima, di aspetti della natura, di eventi o ancora di emozioni umane. E’ plausibile supporre che, seppure in forme più primitive, tali caratteristiche fossero comuni anche in religioni più antiche, ma per nostra sfortuna cominciamo ad avere elementi chiari su cui trattare principalmente dal momento dello sviluppo della scrittura in forma sufficientemente articolata.
Riscontriamo dunque come, dall’Asia alle Americhe, dal Caucaso all’Africa, le religioni abbiano fondamenta comuni, e ruotino attorno ad un fulcro altrettanto comune, quello della creazione e della fine della vita. Fine della vita che, in un modo o nell’altro, tutte le religioni risolvono teorizzando l’effettiva assenza di una fine nel proprio senso del termine, ma semplicemente di un mutamento della stessa. Vi siano infatti traslazioni dell’anima (concettualizzazione e materializzazione frequentissima del puro ed etereo intelletto umano) in mondi ultraterreni (paradisi ed inferni in seguito alle azioni nella vita terrena sono piuttosto comuni in molte religioni), o che quest’anima rinasca sotto altre forme, si riscontra la perpetua creazione di vari espedienti per l’impossibilità del cervello umano di metabolizzare un concetto quale la non esistenza che è non assimilabile, inconcepibile per i nostri sensi e per la nostra stessa natura.
Insomma, questa necessità ineluttabile di trovare soluzione per un concetto scientemente inafferrabile come la non esistenza, sommata alla frequente propensione ad umanizzare elementi, concetti, persino oggetti, spinge la creazione di universi fittizi più o meno complessi, l’esplicazione spirituale di bisogni non altrimenti capaci di soddisfazione. Una fuga intellettuale da una realtà insufficiente ed inadatta per le proprie necessità e desideri.
Potremmo andare ad identificare in uno sviluppo metaforico del primario istinto di sopravvivenza le ragioni più strettamente “fisiche” di tali processi mentali. Così come infatti l’evoluzione di tale istinto nel mondo moderno ha trasformato la mera sopravvivenza in un bisogno di accumulare e ricavarsi sempre più benefici tecnicamente superflui, nel proprio personale intelletto questa medesima mutazione dell’istinto porta a creare una visualizzazione eterea di quei desideri spesso più emozionali che non materiali.
Se, dunque, l’intelletto umano è spinto a simili creazioni astratte da punti così indiscutibilmente primari, non si comporterà in maniera similare su altri concetti? Non andrà a creare, in differenti forme e metodi, altri universi figli della propria immaginazione? La risposta è, ovviamente, affermativa.
La creatività collettiva
Abbiamo sinora postulato delle basi remote onde gettare maggiore chiarezza su quel processo mentale che rende l’essere umano istintivamente portato alla creazione e divulgazione di artifizi immaginari come strumento per alleviare certe mancanze. Ma sinora, se non per le religioni stesse, che hanno per antonomasia una particolare presa sull’animo umano, a causa degli argomenti che trattano, non abbiamo identificato simili esplicazioni su scala tale da poter essere rimembrate, o da poter essere, tantomeno, considerate correnti culturali degne di tal nome.
Questo è rapidamente illuminabile. E’ assolutamente plausibile, per non dire certo con sicurezza nozionistica, che anche su ben altri temi si siano sviluppate astrazioni collettive, tramandate e divulgate per via orale, su piani di rilevanza inferiore a quello della religione. Credenze popolari, leggende, superstizioni sono nate, cresciute, e morte in innumerevoli forme ed in innumerevoli luoghi. Invero non poche di esse ci giungono ancora ai giorni nostri, ma, sfortunatamente, sinché l’alfabetismo non ha raggiunto una larga fascia di popolazione, per la stessa natura labile della divulgazione orale, esse non hanno avuto chance di articolarsi in forme particolarmente complesse, né di assumere forme costanti nel tempo e nello spazio.
Per interi millenni dunque, la stragrande maggioranza delle produzioni letterarie astratte giunteci sono da attribuirsi alla interazione di ristrettissime fasce delle classi dominanti e, sebbene sia innegabile che non possano essersi certo sottratte all’influenza delle credenze popolari, non possono essere considerate puramente fedeli rappresentazioni dell’immaginario collettivo, e similarmente non hanno avuto una neppur sufficiente gamma di lettori da poter influenzare lo sviluppo di questo stesso immaginario. Non possiamo dimenticarci, a tal proposito, che non di rado tali produzioni erano subordinate a precisi desideri di regnanti e come, anche in quei rari casi in cui la libera analisi intellettuale ne era l’unica fonte, non vi erano che pochi eletti, poche caste di privilegiati, a poterne in seguito usufruire.
Dobbiamo risalire sino a tempi drammaticamente recenti prima di poter trovare le prime avvisaglie di quello che è un genere totalmente nuovo di letteratura, avente un target ben più elevato di persone, e che, in seguito, si è cristallizzato in quello che oggi definiamo narrativa. Se i semi di ciò li troviamo già germogliati nel diciottesimo secolo, i frutti li riscopriamo nel diciannovesimo, periodo nel quale l’alfabetizzazione in numerosi paesi europei ed occidentali in genere aveva ormai raggiunto elevatissime percentuali.
Non si scrive più dietro diretto compenso di un committente, ma nella speranza d’un compenso derivante dal numero di lettori attratti dalle opere prodotte. Questo, da un certo punto di vista, spinge gli autori a dirigersi verso stili meno, sotto certi aspetti, ricercati, pomposi, superbi. Il prodotto dovrà essere appetibile tanto all’intellettuale quanto al lavoratore medio, la cui unica lettura, spesso, è tutt’al più il quotidiano di stampa. Ed, anzi, sono proprio i quotidiani in molti casi ad aver dato i primi spazi alla breve narrativa popolare.
Questo anche per il fatto piuttosto evidente di come, generalmente, nei primi decenni della propria esistenza, tale narrativa si scoprisse legata alla struttura delle novelle del secolo precedente, probabilmente nella comune autodeterminazione di una forma che fosse accessibile alla massa per la quantità ridotta, prima ancora che per la qualità.
Tale narrativa, nelle sue prime forme, trovava come preponderante il tema avventuroso, eppur realistico, cogliendo gran parte della propria ispirazione dalla cultura colonialistica di quelle stesse nazioni che ne sono state la culla primaria. Avventure dunque esotiche, basate sì su luoghi ed eventi plausibili, se non propriamente realistici, eppure, per il limitato habitat dell’uomo medio della Città, un’ambientazione abbastanza lontana, aliena, fantastica, tale da poter, all’occhio attento, permettere di individuare immediatamente l’avvisaglia del prossimo sviluppo di tale filone.
Ma, prima di giungere a questo, torniamo alla nostra iniziale linea di ragionamento, e domandiamoci perché l’uomo di quei tempi abbisognasse nella sua astrazione intellettuale mondi tanto estranei, tanto alieni, tanto violentemente differenti dal loro, comunemente più “arretrati” sotto ogni aspetto. Abbiamo posto in precedenza come assioma che l’astrazione intellettuale sia spesso rivelazione, valvola di sfogo, di necessità insoddisfatte, o di fuga da aspetti sgradevoli eppure irrinunciabili della propria esistenza. Tenendo a mente questi punti, osservando come quella narrativa sin dal principio cercasse ambientazioni avventurose, in mondi selvatici ed antichi, e dando una semplice occhiata a quello che era il 1800, la conclusione è estremamente palese.
Lo sconvolgimento culturale portato in una larghissima fetta della popolazione produttiva dalla rivoluzione industriale, lo sappiamo bene, ha dato vita a nuovissime e lancinanti piaghe sociali, ha portato nell’uomo comune un crescente terrore per il futuro, dovuto al sentimento di perdita di quelle solidissime basi formatesi in lunghi millenni e venute a cadere nel giro di pochi repentini anni, in virtù di uno sviluppo tecnico arduamente assimilabile. L’uomo si viene a scoprire di colpo solo, abbandonato su di un treno che corre a velocità folli verso una meta oscura, attorniato da milioni di suoi simili, eppure più solo che mai, individuo anonimo in tutto e per tutto identico ad innumerevoli altri, assimilato in un’enorme catena di montaggio quale è divenuta l’intera società.
Non c’è da sorprendersi, dunque, se una nostalgia per un passato, chiaramente rivisto solo nei suoi lati emozionalmente positivi e non nelle sue tragedie sociali, se un desiderio di fuga dal moderno tanto sconosciuto quanto prepotente, ha creato le basi per la prima collettiva fuga dalla realtà verso mondi così infinitamente poetici, mondi privi di queste manifestazioni così freddamente materiali, e pieni sino a traboccare di rivalutazione ed eroicizzazione della qualità dell’individuo, della sua quasi divina unicità.
Ne è d’altronde riprova come tali correnti cultural-letterarie (ne riscontriamo svariate forme anche in molteplici altre forme d’arte, che però, nel nostro ambito, sarebbero unicamente fuorvianti e dilazionatorie di un tema estremamente vasto) abbiano fatto presa principalmente nelle neonate realtà urbano-metropolitane. Il fatto che nel mondo rurale e contadino esse siano giunte solo molto più tardi non è attribuibile unicamente al fatto che l’alfabetizzazione di tali aree sia giunta altrettanto in ritardo, questa ne è solo una concausa, nella più ampia concomitanza di come l’intera influenza “modernistica” abbia raggiunto tali luoghi più di un secolo dopo (ed, invero, ancora oggi possiamo notare resti di questa differenza culturale fra le zone rurali e quelle cittadine).
Ormai ci siamo, i bisogni ci sono, l’insoddisfazione anche, questi vengono per ora soddisfatti da una semplice e lineare fuga verso la pur fittizia reinterpretazione di quanto, appena dietro l’angolo, è ancora chiaramente palpabile. Siamo di fronte ad uno dei più fertili humus emozionali che si ricordi, quanto ci vorrà affinché altri fattori si intersechino sino a creare qualcosa di più “elevato”? Ciò che temiamo, infatti, per paradossali e forse persino morbosi istinti, ci attrae al medesimo tempo. Quanto ci vorrà affinché venga soddisfatta anche la nostra maniacalità, e quanto ci vorrà prima che da una semplice e terrena fuga si venga ad affrontare al contrario una vera e propria immaginaria lotta fra il Bene, l’Essere Umano, ed il Male, una Tecnologia fredda e senz’anima, divoratrice dell’individualità e del sentimento? Un concetto di lotta sicuramente semplicistico, eppure un così tipico, e sollevante, visualizzare monocromaticamente la soluzione d’ogni problema?
La risposta, anche questa volta, è scontata. Molto, molto poco.
Il Mondo Fantastico
E’ a partire dalla seconda metà dell’800 che la narrativa popolare compie un primo, essenziale, giro di boa, la strada pur aperta già nel 1818 da quel Frankenstein di Mary Shelley il quale, pur col senno di poi opera di evidente ingenuità, ha rappresentato una abbagliante novità. Esso è il primo, importante romanzo, che sfugga all’ambientazione avventurosa e colonialistica, e che introduca due delle future costanti narrative che in seguito si affermeranno con prepotente rapidità : la fantascienza ed il neogoticismo. Della prima abbiamo la più tipica caratteristica dell’immaginaria previsione di quali valli ben presto la scienza potrebbe valicare, del secondo abbiamo la totale atmosfera di negatività, di inutilità, di tenebroso e quasi superstizioso tabù che l’essere umano mai dovrebbe osare violare, esplicazione di quel timore reverenziale per i tanti dogmi preconcetti che l’evoluzione tecnologica sta in quel periodo abbattendo come castelli di carte.
Ed è per altro curiosa, ed esplicita, coincidenza, come tale giro di boa verta nel caso particolare proprio su quel primario argomento, trattato in precedenza, della Morte e dell’atavico bisogno di sfuggire ad Essa? In un’analisi logico-deduttiva quale è quella che stiamo seguendo, poco spazio vi è per le “coincidenze”, così come ancor meno ve ne è per un’inafferrabile concetto del “destino”. Infatti tale ricorrenza non è né l’una né l’altra cosa, ma, ben più semplicemente, è riprova di come quanto abbiamo postulato sinora si stia rivelando fondamento corretto, di come i bisogni umani, pur espressi sotto differenti forme nel tempo e nel luogo, serbino sempre costanti similitudini di base, e non possano mai sfuggire se non solo superficialmente a questi fondamenti.
Sempre attorno alle metà del XIX secolo, troviamo un secondo precursore dei tempi, indubbiamente ancor più avveniristico di Mary Shelley. Se infatti quel genere nato dal neogotico Frankenstein vedrà molto presto venire alla luce altri importanti esempi, l’approccio molto più scientificamente mirato di Jules Verne non troverà degni successori sino alle prime decadi del XX secolo. Nell’opera di Verne infatti troviamo solo la più attenta e ragionata previsione dello sviluppo scientifico, e, seppur frammiste a delle evidenti e comprensibili ingenuità, molte sorprendenti intuizioni su quanto la società sarebbe cambiata un secolo più tardi. Dovremo attendere sino alla nascita della fantascienza statunitense per ritrovare nuovi esponenti di una narrativa sci fi fondata su basi nozionistiche d’alto livello, e capaci di plausibilità tale da non creare solo universi fittizi, ma letteralmente indovinare un futuro non lontano.
Come detto, Frankenstein è precursore di numerosi esempi che ci attendono nella seconda metà dell’800, periodo che ospita numerosi narratori di un Fantasy dalle tinte estremamente oscure, genere che, rivisto oggi, non di poco si discosta rispetto a quel Fantasy epico al quale siamo abituati. Ne sono esponenti oggi purtroppo quasi dimenticati autori quali William H. Hodgson, H. Rider Haggard, Edgar Burroughs.
Sempre a cavallo di questo periodo, vi sono alcuni autori che si distinguono in modo particolare, discostandosi con una individuale originalità da quella linea guida comune che d’altronde certo non dimenticano. Edgar Allan Poe, in primis, che fece suo principalmente l’aspetto Neogotico della narrativa dell’epoca, e in una struttura ancor novellistica lo portò alla saturazione estrema. Sino all’opposto estremo, rappresentato da H.G.Wells, che riprese invece le tematiche di Jules Verne.
Questo è anche il periodo in cui produsse le proprie opere il tanto noto Arthur Conan Doyle, la cui fama giunge ancora ai giorni nostri per la sua creazione forse più semplicistica, e da lui medesimo meno amata, vale a dire l’Investigatore Sherlock Holmes. Ma Conan Doyle, non dimentichiamocelo, non si è mai riuscito a slegare del tutto dall’ambientazione colonialistica, se non nelle decadi della sua vita nelle quali le sue produzioni mostrano un repentino giro di boa, andando a sfociare nel soprannaturale e nello spiritistico. In tali scritti il neogoticismo è visto in maniera sin troppo stereotipata, nient’altro che ulteriore riprova di come tale argomento divenne una mania patologica per l’autore sino agli ultimi istanti della sua vita.
Traghettati da questi narratori giungiamo, infine, al XX secolo, che in pochi anni ci condurrà ad assistere al fulgido esplodere dell’età d’oro della narrativa fantastica popolare. Il tema Neogotico sopravviverà solo per una quarantina d’anni, per essere poi spazzato via dal Fantasy Epico, dalla Fantascienza moderna e, sfortunatamente, da quella che oggi conosciamo con l’appellativo di Narrativa dell’Orrore, che rispetto ai predecessori mostra un terrificante crollo qualitativo.
Massimo esponente, pur all’epoca poco considerato, dell’ultime decadi di vita del Neogoticismo narrativo è Howard Phillips Lovecraft, indimenticati ed indimenticabili i suoi Miti di Cthulhu, d’altronde strutturati con certe colonne portanti che non possono non farci notare come il tema fantascientifico stesse prendendo piede ed influenzando il corpus anche degli altri generi.
Questo boom dei suddetti generi è in principio caratterizzato dalla struttura a brevi racconti, poiché è condotto principalmente dalla nascita ed enorme diffusione negli States delle riviste tematiche, per altro ottimo, ed economico, sistema per portare a galla i molti piccoli autori del periodo. Basti nominarne le due più famose, Weird Tales ed Astounding. La prima ospitò racconti dello stesso Lovecraft, di Robert Bloch, Seabury Quinn, ed in genere accoglieva racconti dell’orrore, sempre meno soprannaturali e sempre più simili a quelli moderni. La seconda, di contro, fra le innumerevoli dedicate alla fiorente sci fi, fu l’unica ad avere lunga e stabile vita, e fra gli autori allora giovanissimi che portò alla ribalta, ve ne sono molti fra quelli che ancor oggi sono considerati i padri fondatori della fantascienza. Robert Heinlein, Alfred E.Van Vogt, Jack Vance, e, non ultimo, l’autore con una cui analogia abbiamo aperto questo testo, Isaac Asimov, padre indiscusso del Robot moderno (il primo robot, infatti, a sfuggire a quel vecchio complesso di Frankenstein, che sempre lo dipingeva quale creatura frutto della superbia umana e destinata a ribellarsi a simboleggiare la collera divina verso il moderno Prometeo) e della Fantascienza realistica.
E’ dunque epoca nella quale assistiamo alla lenta morte della narrativa Neogotica, eccezion fatta per pochi singoli capaci di mostrare ancora scintille di qualità superiore, e di contro alla diffusione senza freni della fantascienza, talvolta ingenua sino a divenire ridicola, talvolta di qualità indiscutibile. In questo universo in cambiamento, caotico, pare esserci poco spazio per un vecchio Fantasy di cappa e spada dalle tinte dark. E di fatti a trovar spazio sul genere ci riesce forse il solo Robert E. Howard, che trova sì spazio in quelle riviste, ma è sommerso dalla quantità di produzioni di ben altro genere.
Ed è forse proprio per tali ragioni che vengono a porsi le condizioni fruttuose alla nascita di un Fantasy di nuovo stile, che dalla Fantascienza prende in prestito il tema dell’Alieno, della creatura non umana, non trattata più come entità a sé stante, quanto come analisi della possibilità di intelletti differenti, di stili di vita, ragionamento, approccio totalmente differente da quello umano.
A J.R.R. Tolkien dobbiamo la creazione di quelle colonne del Fantasy che ancora oggi sono imprescindibili, costanti sì rielaborate, ma mai nella loro profonda essenza. A lui dobbiamo Elfi, Nani, Orchi, la magia epica, tutte quelle caratteristiche che identificano il Fantasy moderno.
Il suo primo lavoro pubblicato è Lo Hobbit, romanzo per ragazzi, che ci introduce con garbo in un mondo terribilmente complesso e, seppur costellato di impossibilità pratiche e di creature fantastiche, incredibilmente plausibile.
Lo Hobbit è un successo, e merita dunque un seguito, che Tolkien decide, d’altronde, di strutturare per un target maturo. E’ Il Signore degli Anelli, trilogia di volumi considerata e votata quale massima opera narrativa del XX secolo, ed, indubbiamente, libro più letto di tutti i tempi. Ben più tardi, dopo la sua morte, seguiranno le raccolte rielaborate dal figlio Christopher di racconti inediti, Albero e Foglia, Le avventure di Tom Bombadil, Racconti Incompleti, Racconti Ritrovati e, soprattutto, qual capolavoro rappresentato da Il Silmarillion.
Una domanda sorge spontanea : cosa ha fatto del Signore degli Anelli l’opera di narrativa più letta e più nota dell’intero XX secolo? I motivi sono innumerevoli, ricollegandoci al tema portante di questo testo potremmo supporre che in esso vi sia la massima componente di fuga dalla realtà, non infatti una realtà futuristica o futuribile, né passata con palesi legami alla realtà materiale, bensì una vera e propria realtà alternativa plausibile, per certi versi, pur totalmente aliena.
Indubbiamente il SdA trae gioco forza da quella tematica dell’individualità che abbiamo trattato in precedenza in rapporto alla perdita d’identità individuale sofferta in un mondo industriale. Ne è palesazione come, nella trama, è la più piccola, innocua, apparentemente insignificante delle creature a porre materialmente fine al millenario e soprannaturale giogo oscuro del Signore di Mordor, Sauron.
Abbiamo dunque un romanzo che si avvantaggia di tutte quelle caratteristiche che abbiamo visto essere il fulcro del successo di alcuni generi letterari, ma che aggiunge qualcos’altro, una profondità di sviluppo ed articolazione che attrae anche un pubblico non medio, bensì di intellettuali e colti. Non solo in senso lato il SdA tratta con metafore fittizie tematiche intellettuali scottanti, ma in senso ben più materiale mostra un maniacale lavoro di plausibilizzazione del mondo creato. Tolkien, come fondamenta del suo mondo magico-cavalleresco, appronta veri e propri idiomi totalmente inventati (eccezion fatta per l’ovvio ispirarsi nella semantica e nella grammatica ad alcune lingue reali), un corpus miti estremamente complesso che, trattato nel Silmarillion, nel SdA trapela solo fra le righe, dando un senso di completezza al tutto. Egli si diverte persino a creare un calendario tutto suo per regolare le stagioni di questa Terra di Mezzo.
Il risultato nel suo complesso è tale da consentirci di definire Il Signore degli Anelli non solo un romanzo di narrativa fantasy, ma anche, a pieno titolo, un romanzo storico, certo, di una storia parallela, ben lungi da quella reale, pur tanto complessa e costellata di avvenimenti e personaggi da scatenare interesse anche al di fuori della sola trama portante della narrazione. Pensiamo, ad esempio, come ai giorni nostri esistano intere associazioni di studio internazionali che si dedicano all’analisi delle lingue create da J.R.R. Tolkien, come letteratura e linguistica tolkieniana sia persino materia d’esame alla facoltà di Oxford.
E’ dunque su questa sconfinata opera che tutto il Fantasy della seconda metà del XX secolo si basa, e non potrebbe far altrimenti, in quanto i concetti postulati da Tolkien sono entrati nell’immaginario collettivo come dogmi imprescindibili e quasi scontati. Diverrebbe di fatti persino ostico accettare narrazioni in cui i Nani non siano un popolo rozzo e guerriero, in cui gli Elfi non godano di lunga vita e non siano un popolo di grande levatura intellettuale, poiché apparirebbero poco realistici, seppur tale sarebbe una deduzione riferita ad un postulato altrettanto, almeno in teoria, tutt’altro che reale o realistico.
La portata di questo capolavoro, di contro, rappresenta paradossalmente un argine per successivi esempi di questa narrativa, che risentono ancor oggi di un confronto estremamente arduo da sostenere, e l’automatica competizione che si viene a creare fra nuovi romanzi fantasy ed il SdA ha fatto sì che ci siano pochi esempi degni di nota da nominare in questa sede. Solo in tempi recenti, de facto, meritano riferimento la saga di Dragonlance e quella di Shannara, in taluni casi più per la loro diffusione popolare che non per vette di originalità o qualità. Menzione che per motivi opposti merita la saga di Earthsea di Ursula Le Guin, poco nota al grande pubblico, ma che presenta originalissimi spunti di reinterpretazione di alcuni fondamenti del Fantasy, quali, ad esempio, una visione pseudoscientifica della “magia”.
In definitiva, la seconda metà del XX secolo presenta, in ambito strettamente letterario, un certo periodo di ristagno per i generi narrativi di alternate reality di cui abbiamo trattato. Vi sono, indubbiamente, alcuni singoli autori notevolissimi, ma rare sono le vere innovazioni culturali, se non, nel campo della Sci Fi, la comparsa del Cyberpunk negli anni ’80, ovvia conseguenza di una profonda rielaborazione degli universi futuristici per via dell’inizio dell’era informatica, che ha sconvolto non pochi dogmi narrativi.
Pur in ristagno evolutivo, la narrativa Fantasy-Sci Fi come non mai ha distribuzione di massa, ed è innegabilmente buon campo per qualsivoglia operazione commerciale. Il cinema stesso, sin dagli anni ’50, pur spesso in maniera terribilmente esemplificativa, ha contribuito alla diffusione di massa di queste tematiche.
Ed una originalissima operazione commerciale d’aspetto ludico nasce infatti negli States attorno alla fine degli anni ’70. Ne è più noto fautore Gary Gigax, e la sua invenzione, il Gioco di Ruolo, trova la sua prima forma nel celeberrimo D&D, acronimo che sta per Dungeons and Dragons.
Cunicoli e Draghi
Alla radice dei GDR (Giochi Di Ruolo) v’è indubbiamente il Wargame, nient’altro che l’evoluzione dei vecchi “soldatini” di piombo. V’è chi narra, di fatti, che David Arneson, co-creatore del D&D, fece un primo esperimento di uno pseudo-GDR ancora notevolmente legato allo stile del Wargame con alcuni amici nel 1969, seppur ambientato in tempi napoleonici. L’idea dell’ambientazione fantasy sarebbe poi nata nella sua mente agli inizi degli anni ’70.
Contemporaneamente, un simile sviluppo avveniva nel venerabile, ed allora sconosciuto, lavoro di Gary Gygax, che diede vita a Chainmail, un regolamento per il wargaming medievale prodotto dall’allora altrettanto sconosciuta TSR (Tactical Studies Rules).
I due, collaborando negli anni immediatamente successivi, idearono quello che fu il primo vero e proprio esperimento di GDR slegato dalle miniature del Wargame. Se Gary Gygax s’occupò soprattutto del sistema di regole, ad Arneson dobbiamo alcuni dei concetti fondamentali, quali quello dell’”esperienza” progressiva, dell’ambientazione nei “Cunicoli” (Dungeons), e soprattutto nell’idea di utilizzare il medesimo personaggio in più sessioni di gioco.
Il risultato di questa collaborazione vide la luce nel 1973, pur ancora era cosa nuova ed era ancora lungi dal nascere l’appellativo di Gioco di Ruolo, e la TSR lo denominò “Regole per Campagne di Wargames Medioevali Fantastici giocabili con carta e penna e figure in miniatura”. Malgrado il nome tanto lungo quanto scoraggiante, le copie, in tiratura pur limita, del gioco vennero esaurite in pochi mesi, e presto ristampate. In seguito, ulteriori rivisitazioni, supplementi, espansioni, portarono ad articolare e strutturare maggiormente il sistema di regole, sino alla rielaborazione datata 1978 per mano di Eric Holmes. Sarà proprio questa edizione a, tradotta, giungere in Italia nel 1980, così come in altre nazioni europee.
Mentre in Italia, dunque, s’imparava solo a digerire questo nuovo stile di gioco tramite il set basico del D&D, negli USA esso viveva e veniva completamente rielaborato ormai da sette anni, e non si potevano nemmeno più contare le innumerevoli regole opzionali ed aggiuntive che fiorivano, spesso assolutamente non ufficiali, tramite riviste e fanzines dedicate, creando non poca confusione e, spesso, impedendo un gioco uniforme. Fu per tale ragione che, sotto la spinta di Gary Gygax, prese il via un nuovo progetto, inteso ad ampliare le ormai chiaramente ingenue ed antiquate regole del D&D, sino a cristallizzarsi nell’Advanced Dungeons & Dragons.
Altresì, in questo periodo, attorno alla metà degli anni ’80, come sempre accade ad un nuovo mercato, ben presto il monopolio giunge a cadere, osservando la nascita di nuovi ed alternativi sistemi di gioco, quali il MERP, Warhammer, Runequest, Hero System. I primi due, soprattutto, ebbero particolare successo. Il primo, basato su un’ambientazione ripresa dal Signore degli Anelli di Tolkien, fu diretto concorrente dell’AD&D, mentre il secondo divenne ben presto lo standard di tutti i Wargames che ancora si appoggiavano alle miniature.
Questi nuovi sistemi di regole erano indubbiamente molto più raffinati del vecchio AD&D, che, per quanto più articolato del D&D, ne serbava l’ambientazione lineare dell’“uccidi mostro, trova tesoro”. I nuovi prodotti, infatti, portavano un’estremamente maggiore rilievo nell’interpretazione del proprio personaggio, ed innanzi ad essi il dominio della serie del D&D, che pur rimaneva lo standard, iniziò a vacillare.
La crisi portò ad una rottura nei rapporti fra Gary Gigax e la TSR, che senza il suo aiuto corse ai ripari elaborando l’AD&D 2° Edizione, che li riportò, almeno temporaneamente, a risalire la china.
In tempi estremamente recenti, infine, vede la luce il D&D 3° Edizione, indubbiamente estremamente evoluto rispetto a quell’ingenua opera del 1973, ma, malgrado questo, esiste un gran numero di quelli che oggi si possono chiamare “puristi” del GDR, che considerano tale sistema di regole semplicemente ridicolo.
Ma, per chiarire il discorso ai profani, cerchiamo di definire cosa sia il GDR “alla D&D”, detto anche “cartaceo”.
In un GDR cartaceo partecipano diversi giocatori, arbitrati da un Master. I Giocatori, sotto il suo controllo, danno vita ad un loro alterego denominato Personaggio Giocante (PG), basato su numerosi valori numerici e descrittivi raccolti in una scheda di riferimento chiamata Scheda del Personaggio. Il Master ha il compito di creare una storia, nella quale i Giocatori possono interagire coi loro Personaggi. Il gioco si svolge infatti con una linea discorsiva tra il Master e i Giocatori che agiscono a seconda delle situazioni loro presentate, spesso valutando la riuscita dei loro intenti tramite il lancio di dadi il cui risultato è da rapportare alle corrispondenti caratteristiche sulla Scheda del Personaggio. Il Master, coadiuvato dal sistema di regolamento del GDR, decide gli esiti dei tentativi dei Giocatori, delle loro azioni e dei loro combattimenti contro i nemici. Il Master ha piena discrezione decisionale, è l'arbitro della situazione nonché il creatore. Una voce narrante divina. Egli inoltre ha il ruolo di interpretare tutti gli avversari dei Personaggi nelle sue storie, nonché tutti i PNG (Personaggi Non Giocanti), cioè tutti quegli esseri senzienti o meno coi quali i Personaggi Giocanti avranno a che fare nel corso delle loro avventure.
Tale sistema di gioco ha avuto un considerevole successo, tanto da creare una folta base di appassionati appartenenti a diverse fasce di età. Si è giunti sino all'organizzazione dei GDR dal vivo, trasposizioni nella realtà del Gioco di Ruolo, in cui il Giocatore stesso interpreta fisicamente il suo Personaggio, con tanto di corrispondente abbigliamento, equipaggiamento, eccetera.
Alquanto sopra le righe, ed indubbiamente divertente, è una corrente perbenista (se non addirittura paranoica) nata sin dal primo periodo di auge del GDR, e che sopravvive ancor oggi, che prese a sostenere di individuare nel GDR, e soprattutto in quello, dal loro punto di vista, sanguinario del D&D, dei messaggi antisociali, o addirittura eretici se non, persino, legati al Satanismo. Per quanto questi estremismi di “moralità perversa” non ebbero mai modo di prendere piede in maniera sensibile, sopravvissero sfruttando l’innegabile singolarità del GDR dal vivo, ed in certi ristretti periodi influirono parzialmente nella visione comune di un fenomeno di indubbia diffusione.
Un esempio di tale “sospettosa” visione lo troviamo in un film, estremamente misconosciuto, del 1982, Maze and Monsters, nel quale un giovane Tom Hanks interpreta un ruolista dalla psiche turbata, che finisce col convincersi di essere il suo Personaggio di gioco, e vaga, sino ad una tragica fine, per le vie di New York in cerca di inesistenti demoni, vivi solo nella sua mente malata.
Seppure in una evidente estremizzazione fittizia ai fini di una trama cinematografica, in questa pellicola possiamo trovare un concetto che richiama la linea di ragionamento con la quale abbiamo aperto questo testo. Chiaramente, infatti, il GDR ha avuto tale successo poiché rappresenta un’evoluzione tutta nuova e più sviluppata di quella fuga dalla realtà che regge la passione per la narrativa fantastica. In un Gioco di Ruolo, l’appassionato può personalmente interagire con l’universo alternativo presentatogli, ed è la propria fantasia a poter interagire direttamente con lo svolgersi degli eventi della narrazione. In un certo senso, dunque, la fuga è ora totale, non è più solo passiva, costretta ad assecondare l’idea prestabilita di uno scrittore, bensì attiva, vissuta pressoché in prima persona.
Ora, la visione più moderata delle possibili “conseguenze negative” del GDR (e non certo quindi quelle estremamente bigotte che vanno a richiamare tanto per altisonanza concetti religiosi che nulla hanno a che vedere con l’argomento), intravede in queste caratteristiche una possibile fonte di distorsione patologica della fuga. E’ di fatti vero come l’individuo che presenti una patologia psichica di allontanamento dalla realtà spesso si faccia forza di sue nozioni culturali (talvolta storiche, talvolta narrative) per costruirsi l’alterego da impersonare onde celare a sé stesso e agli altri la sua vera identità, con la quale non riesce a convivere. Se, dunque, non è la personalità “alternativa” la causa del disturbo, ma solo una sua manifestazione conseguente, nel Gioco di Ruolo si possono quantomeno intravedere ottimi spunti donde trovar stimolo per individui già predisposti a manifestare simili malattie.
Chiaramente, sarebbe alquanto ingenuo demonizzare per tale ragione il GDR, poiché seguendo tale ragionamento sarebbe allora da demonizzare la letteratura, persino la storia stessa (pensiamo all’umoristico stereotipo del pazzo che crede d’essere Napoleone), praticamente ogni lato della cultura sociale. Simili casi limite, di fatti, sono in genere indipendenti dall’ambiente circostante, dal quale solo in seguito possono trarre occasione di manifestarsi, manifestazione che, d’altronde, non potrebbe essere impedita eliminando queste occasioni. Per altro, superfluo dirlo, non si conoscono nella realtà casi patologici di disturbo mentale della personalità legati ai GDR cartacei.
Come abbiamo detto, il GDR è divenuto passatempo estremamente diffuso, ed ha assunto forme indipendenti dall’originario “cartaceo”. In tempi estremamente recenti, l’avvento di internet ha rivoluzionato le vie di comunicazione interpersonale, consentendo interazione contemporanea ed immediata fra migliaia di individui pur fisicamente distanti fra loro. Tale caratteristica non poteva che suscitare l’interesse creativo degli utenti, che hanno visto a portata di mano d’ognuno la possibilità di interagire, e condividere passioni, con un numero virtualmente illimitato di interlocutori. Parallelamente, ciò non poteva, dunque, che essere immediatamente di interesse anche per i ruolisti, che hanno saputo cogliere la palla al balzo. Del resto, come abbiamo visto, il Gioco di Ruolo non necessità di alcun supporto materiale, e si fonda solo sull’iterazione verbale fra i partecipanti, perché dunque non tentarla per via testuale, ampliando enormemente il numero di possibili partecipanti?
E’ così nato un nuovo fenomeno per la rete e per il ruolismo, ed hanno visto la luce le comunità virtuali di GDR, che di questo gioco hanno fondato una nuova branca, un nuovo approccio estremamente differente per molti aspetti. Questo nuovo modo di giocare di ruolo ha fornito, fra l’altro, un neonato nome esclusivo al suo sistema di regole e consuetudini, ossia GDRPI, Gioco di Ruolo a Proiezione Interpretativa. Le ragioni per le quali s’è venuta a creare questa nuova definizione saranno trattate a breve.
Ma, come in tale ambito la qualità e l’articolazione del GDR ha raggiunto l’apice, così anche ogni eventuale conseguenza negativa s’è intensificata. E se nei precedenti sistemi di gioco tali conseguenze erano pressoché inesistenti, in questo esse si fanno avvertire, e non in isolati ed estremi “casi limite”, ma in più moderati e diffusi, e proprio per questo più preoccupanti, “disturbi” relazionali, che se come abbiamo accennato in precedenza non nascono dal gioco in sé, in esso trovano, questa volta, terreno sicuramente fertile per germogliare e manifestarsi.
Proiezione o transfert? Realismo o Realtà?
Ma nel dettaglio, quali sarebbero queste innovative caratteristiche, tali persino da poter così sorprendentemente influire e favorire certi tipi di patologie relazionali? E soprattutto, perché mai uno svago, un passatempo, non poi molto differente dalla lettura di un buon libro, può celare simili inconvenienti? La risposta a quest’ultimo quesito è piuttosto complessa, e per altro potrebbe assumere diverse interpretazioni a seconda del soggetto, ma in tal sede cercheremo di dare delle generiche deduzioni per delineare meglio un fenomeno di massa assai cangiante, senza osare scendere in dettagli individuali, ben al di fuori della nostra portata o intenzioni.
Abbiamo visto che questo “gioco virtuale”, rispetto alla consueta ed ormai ultraventennale denominazione di GDR, aggiunge una nuova sigla, PI, Proiezione Interpretativa. Questa sittanto altisonante definizione va a descrivere quella che è forse l’unica principale rivoluzione : cambiano sì le regole di gioco, che anzi vanno quasi completamente a tramutarsi in consuetudini, così come diversi altri aspetti, ma la vera caratteristica del tutto nuova è che gli utenti, o giocatori, interpretano in toto un alterego fantastico, in qualità e quantità.
Infatti questo genere di “comunità virtuali” vivono e si evolvono 24 ore su 24, numerosi i giocatori che si alternano nelle più svariate fasce orarie. Non v’è più, d’altronde, alcun limite fisico alla possibilità di radunarsi per interagire, il tramite è il computer, e chiunque, in qualunque parte del globo, o della nazione, può connettersi ed iniziare a giocare in qualsiasi istante. Questo, ovviamente, crea già di per sé la prima scontata conseguenza : non potranno esserci perennemente “avventure attive”, così come accadeva in un cartaceo, sia per possibilità materiale (deve infatti sempre pur esserci una figura che guida il gioco e crea trame, ed ovviamente non molti, per immaginabili esigenze organizzative, possono vestirsi di questo ruolo e responsabilità).
Se dunque, abbiamo dato vita ad una realtà alternativa perpetua, quale che sia la sua ambientazione, questa dovrà più meno svilupparsi seguendo un certo realismo temporale. Ciò significa che sì, ovviamente, ci saranno eventi, gestiti da arbitri od autogestiti dai giocatori, che si possano immediatamente riconoscere come quelle avventure da GDR cartaceo, ma assai spesso, e per taluni per la maggior parte del tempo, il gioco si sviluppa nell’interpretazione di una quotidianità assolutamente comune che possiamo immaginare per l’ambientazione che ci viene proposta.
Nel momento in cui un giocatore accede alla community, e lo fa gestendo un Personaggio Giocante Virtuale (ossia quell’alterego inventato col cui nome, aspetto, entità noi andremo ad interagire con tutti gli altri alterego che popolino la città virtuale), come tale PG deve comportarsi all’interno di quelle Chat che simulano e rappresentano luoghi “fisici” nel gioco (taverne, piazze, templi, foreste etc.).
Dunque, come abbiamo visto, per gran parte del tempo noi interpretiamo il nostro PG in tutti quei momenti di vita comune che in un GDR cartaceo mai abbiamo affrontato. In un cartaceo, infatti, ci si raduna per poche ore con un gruppo di amici, guidati da un Arbitro che ci crea tutte le “comparse” della trama, e proprio per queste ragioni si va subito al succo. In un GDRPI, altresì, possiamo trovare decine o centinaia di altri giocatori come noi, ciascuno col suo proprio alterego, ciascuno a condurre, o meglio ad interpretare, esattamente come noi la propria “vita simulata”.
La differenza che corre fra i due casi può essere paragonata, richiamando la sopraccitata analogia delle “comparse”, a quella che corre fra un film ed un voluminoso romanzo. Nel primo la trama per ovvie ragioni è assai compressa, incentrata sui pochi eventi di maggiore rilievo per la trama, e sui pochi personaggi principali. Nel secondo, invece, ci si sofferma assai maggiormente nella creazione e narrazione di tutto quel mondo che fa da culla alla trama stessa, e che non di rado diviene più protagonista degli stessi personaggi della narrazione.
Tutto ciò significa che il mio Personaggio, seppure di tanto in tanto, per porre l’esempio di una tipica comunità a sfondo fantasy, potrà vivere “avventure cavalleresche”, spesso e volentieri non farà che vivere in una città fantastica, coltivando amicizie ed inimicizie, piccoli eventi d’ogni giorno, sentimenti, lavori, semplici serate in taverna a far baldoria e conversare con i conoscenti. Paradossalmente, dunque, un universo sì fittizio e di mera fantasia, si ammanta di un realismo impressionante, quasi paragonabile alla realtà “vera”.
E questo è il punto. Già qui, nel semplice tracciare una vaga descrizione di questo argomento, una volta che abbiamo assegnato alla fantasia l’aggettivo di realistica, il nostro vocabolario incontra una difficoltà nell’evidenziare la profonda differenza che intercorre fra “realistico” e “reale”. Poche sfumature, un vocabolo posto prima di un altro anziché dopo, od un corsivo messo qui invece che là, possono essere sufficienti a rendere assai confuso il periodo. Nel GDRPI può accadere qualcosa di molto simile.
Abbiamo detto, poc’anzi, che le regole un tempo ben delineate e scritte dei cartacei, nei GDRPI si sostituiscono con delle “consuetudini abitudinarie”. Questo avviene per ovvie ragioni : come si può ridurre a regole univoche ed incontestabili la vita quotidiana con le sue infinite sfaccettature? La consuetudine principale, l’unica che si può definire “legge universale” di questo genere di GDR, è quella che ammonisce l’utente, a ricordarsi sempre che si tratta di un gioco, e che ogni interazione che vi si verifica è vissuta dai personaggi e mai dai giocatori, mai dalle persone reali, bensì solo da quelle realistiche.
Il fatto stesso che forse l’unica consuetudine condivisa da tutte le organizzazioni e comunità esistenti in questo ambito sia proprio questo ammonimento, è indice evidente ch’essa assai spesso non è rispettata, e richiede, per l’appunto, una sorta di “deterrente”. C’è bisogno di dire e ricordare che “E’ tutto solo un gioco”. Ma non è cosa evidente? Perché dobbiamo sottolineare una cosa così palese? Forse dunque non è palese come ci sembra? Ad un’occhiata appena più approfondita ed interna alla realtà dei GDRPI non potremo che rispondere “no, a quanto pare tutto è fuorché palese”.
Vivendo con tanto realismo, partecipazione, impegno, e costanza temporale la conduzione del nostro alterego, diviene man mano sempre più arduo fare una interna e subcosciente distinzione fra il reale ed il fittizio. In fondo qui stiamo interpretando qualcosa di molto più personale di una “immaginaria miniatura” per la quale tiriamo dei dadi. Creiamo e viviamo una storia coinvolgente, che tratta di emozioni, sentimenti, credenze, morali.
Diamine, e poi mica è semplice impegnarsi a giocare bene una cosa tanto complessa, ci spendiamo dietro un sacco di tempo ed impegno. Insomma, se noi giochiamo bene va a vantaggio anche di tutti quelli che interagiscono con noi, no? Ci saremo ben guadagnati dei diritti in tutto ciò? E quindi, cavoli, dopo tutto l’impegno che ci abbiamo dedicato, non si può mica gettare tutto nel cestino perché qualche imbecille non sa arbitrare bene… Per non parlare dei giocatori mediocri… certo, tutti i diritti di partecipare, noi più esperti possiamo anche essere ben disponibili a chiudere un occhio e dare una mano, ma se uno si ostina a credersi superman, avremo pure il diritto di ignorarlo? E poi magari si lamenta del fatto che lo ignoriamo, o deridiamo (perché, andare in giro con una balestra carica alla cinta non è forse ridicolo?) e nessuno tutela NOI? Come si può permettere un deficiente, che ha scambiato questo GDR per una chat dove trovare compagna, di venire a dire a NOI cosa può o non può fare, e cosa NOI possiamo o non possiamo fare? Ma che vuole, chi lo conosce, chi si crede d’essere? Fuori dai piedi! Eh già, ma tanto si sa, uno si spezza la schiena per giocare bene, ma tanto poi nelle belle posizioni di responsabilità e di potere ci finisce sempre chi è amico dell’amico del leccapiedi, che giochi bene o meno non importa a nessuno…
Si perdoni all’autore questo lungo periodo alquanto estroso, ben al di fuori di uno stile consono in ambito “saggistico”, ma è opinione dell’autore stesso che tale fosse lo stile migliore, se non l’unico, per far veramente trapelare il messaggio anche a chi con le realtà dei GDRPI non abbia grande familiarità. E’ chiaro, si è trattata di un’estremizzazione ai fini del testo di un ben più ampio excursus, che per altro può differire in tanti dettagli a seconda del soggetto che lo vive, e che si sviluppa spesso nel corso di lunghi mesi di partecipazione al gioco, e non certo così, in poche striminzite righe. Ma, il risultato è ben chiaro, e il fulcro di tutto lo si denota nel “chi lo conosce?”.
Interagiamo, in un gioco, e per quanto ampiamente sempre in misura alquanto limitata, con centinaia di perfetti sconosciuti. Non ci lega l’amicizia che in genere lega gruppi di GDR cartaceo, e comunque nei cartacei, i compagni di gioco, in genere ce li scegliamo noi. Abbiamo iterazioni interpersonali estremamente realistiche per quanto in teoria vissute dai soli personaggi, ma non abbiamo l’impalpabile realtà a farne da contorno. Non c’è contatto fisico, visivo, possibilità di empatia, né quindi la possibilità di scegliere con chi interagire e chi neppure avvicinare. E tendiamo dunque, nel gioco, di effettuare quella istintiva e spesso subconscia scelta che facciamo nella realtà, isolandoci in ristretti gruppi, fra un numero relativamente limitato di individui che impariamo a conoscere meglio, verso i quali possiamo sviluppare amicizia, simpatia, complicità. Selezioniamo dunque la nostra controparte in base alle nostre personalissime preferenze, che possono essere, come nello sproloquio di poc’anzi, anche lo stile di gioco. Perché è impossibile avere affinità con tutti, è impossibile né naturale integrarsi con tutta la folla e non con una cerchia familiare. Come in tutta la vita reale dell’uomo, egli si ritaglia certi spazi e certi singoli a creare il proprio “branco”, ci prendiamo il nostro “branco” di gioco. E con esso non abbiamo in genere problemi, poiché sviluppiamo anche contatti al di fuori del gioco, sappiamo ben riconoscere nella controparte dove finisce il giocatore e dove inizia il personaggio.
Con tutte le altre entità che abbiamo però scartato, non abbiamo questa affinità, e questa distinzione non è più facile da fare. Quando tizio ci infastidisce, per quanto ci riferiamo a lui col suo “nick” (ossia il nome del suo personaggio), a pensarci bene ci riferiamo alla persona, a quell’entità sconosciuta che visualizziamo come una fusione fra giocatore e personaggio.
Ciascuno di noi, dunque, sviluppa questa tendenza “isolazionistica” (per quanto, come abbiamo visto, sia assolutamente umana e naturale), eppure, poi, il fatto che questo accada a tutti, e porti delle conseguenze anche negative, ci disturba, ci frustra, e magari ci scopriamo ad essere i primi a criticare questo isolamento in piccole “lobby”. Lo vediamo in quella conclusione, vagamente paranoica, dello sproloquio che abbiamo usato come espediente “narrativo”. NOI facciamo tutto bene, NOI sì che sappiamo giocare, NOI si che ci impegniamo, ma poi… poi sono gli ALTRI a rovinare il tutto con i loro meschini favoritismi. Noi e gli altri, noi e gli altri. Non è ironico che questi due pronomi, in una immaginaria semplicissima rotazione di sguardo e punto di vista, siano così perfettamente intercambiabili?
Possiamo dire di aver centrato il primo punto, la prima caratteristica destabilizzante e potenzialmente patologica all’interno di un GDRPI. Ma nel cogliere questo punto si è evidenziato un altro curioso evento, che pare piuttosto inspiegabile. Se è comprensibile come si sviluppi la tendenza semi-isolazionistica dell’uomo, perché mai di conseguenza essa si palesa, fra le altre cose, in un discorso riguardante il “potere” ed il “rispetto”? Sempre di gioco si tratta, non è chiaro, perché mai dovrebbe essere più “bello” o comunque preferibile giocare da “re” piuttosto che giocare da “scudiero”? Sono semplicemente due parti, due copioni differenti… o forse no?
Per molti, chi più chi meno, anche in questo caso, parrebbe di no. E per cogliere al meglio questo fatto, a differenza di prima, useremo un diverso espediente, ed inizieremo ad affrontare il tema bruscamente, cominciando dal riportare alcuni esempi realmente accaduti in queste realtà.
Il caso limite, sicuramente nato da protagonisti già di per sé disturbati, e che nel GDRPI hanno trovato solo un buon appiglio, pur apparendo assurdo non è neppure stato un caso completamente isolato (anche se ci auguriamo sia stato il più isolato possibile). Si tratta decisamente di un evento alquanto non comune, e certamente non rappresentativo della questione generale, ma non di rado è proprio l’assurdo, per la sua folgorante evidenza, a poter chiarire meglio la “normalità”. Parliamo, ed è quasi imbarazzante farlo, di favori sessuali concessi da singoli soggetti a “potenti” di un gioco allo scopo di ottenere poi, nel gioco medesimo, favoritismi “gerarchici”. Ben immaginiamo l’incredulità, e la difficoltà nel digerire un simile fatto come realmente accaduto, sentimenti che ci accompagnano. Pure, per quanto in casi estremi più unici che rari, tutto indica che siano fatti assolutamente rispondenti a verità.
Altresì, del resto, l’iniziale scetticismo si incrina rapidamente nel notare come non di rado, questa volta assai meno raramente, certi giocatori, seppure in ambiti decisamente meno “intimi”, cerchino o abbiamo cercato di ingraziarsi le simpatie di altri, capaci in qualche modo di favorire il loro personaggio. Per individui i quali, all’interno di una comunità di GDRPI, abbiano rivestito cariche di relativa responsabilità od organizzazione (anche di solo e semplicissimo gioco, del tutto estraneo dalla gestione fisica od economica della community stessa), queste manifestazioni non sono affatto ignote ed, anzi, talvolta, paiono quasi frequenti e non insolite.
Quantomeno, l’esistenza di simili casi è tanto apprezzabile da essere considerata dai più come una scontata realtà, forse persino più consueta di quella che, da un punto di vista non coinvolto, qui definiremmo “normale”. Ne è indice estremo come, altrettanto frequentemente, possano nascere diatribe fra giocatori al pensiero che il particolare “premio” dato all’uno anziché all’altro non sia dato per vera meritocrazia nel solo ambito di gioco. Si digerisce come tanto comune una simile “deviazione”, da essere portati a sospettarla ovunque e con chiunque non appartenga a quel proprio, privatissimo e fidato, “branco”.
Casi limite o casi “consuetudinari”, resta evidente come il “potere” fittizio all’interno del gioco sia vissuto da tanti come assai importante, se non forse addirittura primario. Si è perso quasi tutto lo spirito del ruolismo, quel vivere una rilassante fuga dalla realtà. Già, perché quella fuga si è fatta eccome, solo che ci si è portato appresso anche qualcosa della realtà che nel mondo fantastico non dovrebbe essere presente. Stress, frustrazione, competizione, sopraffazione.
Pure, nel mondo virtuale, quella patologica necessità di “scalata gerarchica” è teoricamente più facile da soddisfare. Ad interagire sono centinaia, o tutt’al più migliaia di utenti, non certo milioni, ed emergere è assai più semplice, che ciò accada in modo sano e rilassante, o che ciò accada nel modo tanto singolare che abbiamo veduto. E quindi, coloro che si scoprono affetti da questa contaminazione del gioco, e della sua natura, riescono a sfogare in tal ambito quelle frustrazioni e necessità che in un mondo reale davvero competitivo, e molto meno accogliente, devono essere represse.
Bè, potrebbe essere una valvola di sfogo dunque, non è detto che tutto ciò sia un male. Se sfogarsi in un gioco ci rilassa nella realtà, in fondo lo spirito del gioco rimane intoccato. Ma nuovamente, purtroppo, non è questo ciò che accade. La relativa facilità di soddisfare queste frustrazioni e necessità dà vita ad un circolo vizioso, e più abbiamo “ottenuto” più vogliamo ottenere, e più diveniamo suscettibili ad ogni tipo di contrasto o critica, poiché, per altro, ora possiamo permettercelo, ora siamo i “capi”, siamo quelli “che contano”. Per altro, a suffragare questa analisi, ci viene in aiuto un dato statistico abbastanza accertato. Se non tutti coloro che spendono molto del loro tempo libero nei GDRPI debbono per forza essere annoverati nella categoria che abbiamo descritto sinora, quelli che in tale categoria sono da annoverare quasi sempre spendono molto del, se non tutto, loro tempo libero all’interno del gioco. Anzi, in certi casi limite, per taluni il gioco diviene quasi una necessità, un’abitudine irrinunziabile, quella realtà virtuale diviene necessaria e assuefacente. Ed è nel progressivo crescere di questa conseguenza, che come avrete notato ricorda un poco gli effetti di un uso sconsiderato (e quindi in genere dettato anche da altre instabilità precedenti) di certe sostanze, che per deduzione andiamo a scorgere un’altrettanto progressivo influire sulla vera vita sociale del soggetto, che, nei casi più estremi, può giungere ad esserne sensibilmente danneggiata o limitata.
Realismo e Realtà… giunti a questo punto, e veduta quanta realtà ha macchiato l’utopico realismo, chi sa più distinguere dove finisca una e dove inizi l’altra? In un certo qual modo, nella nostra fuga dalla realtà, siamo fuggiti tanto lontano da aver smarrito la via del ritorno, e non riusciamo più a tornare indietro.
Non riusciamo più a tornare indietro poiché siamo ormai affondati tanto in profondità in questa complessa e spesso impalpabile melassa relazionale, che non la sappiamo certo riconoscere. E non di rado capita, come in fondo in tutto ciò che è reale, che questa situazione si rispecchi in negativi influssi anche in quel “branco” familiare che abbiamo sinora considerato qual “isola felice”. Le scintille, in fondo, spesso possono essere del tutto slegate dal tema che abbiamo trattato. Nei rapporti della realtà, così come in quelli di una realtà virtuale, è più che ovvio vi siano, col correre del tempo, modifiche, mutamenti, che possono portare ad improvvisi screzi ed allontanamenti. Ma, nel virtuale, se già siamo stati “fagocitati” da questo clima malsano, il risultato può essere dirompente, ed una singola scintilla fra due individui può propagarsi con impressionante rapidità sino ad assumere l’aspetto di un rovinoso incendio.
La frattura che si crea fra due giocatori, innanzi tutto, andrà quasi certamente a ricadere sul comportamento dei loro personaggi in gioco (cosa quanto mai scorretta per le regole di gioco, ma sino a un certo punto comprensibile. Come faccio a giocare tranquillamente con una persona verso la quale nutro risentimento?). In seconda battuta, nutrita dal così comunemente accettato “clima di sospetto”, si può facilmente ampliare coinvolgendo altri appartenenti al “branco”. Nella cieca convinzione che il GDRPI sia luogo di macchinazioni, per primi iniziamo a macchinare, più o meno scientemente, di modo da isolare “l’avversario”, cosa che egli potrebbe fare a sua volta. Nascono voci e si creano fazioni, e fazioni nelle fazioni, personali esperienze ed interpretazioni dei singoli si intrecciano con quelle degli altri e, spesso, il risultato ultimo è lo scioglimento totale del “branco”, un tempo armonioso e specchio del significato vero del gioco.
Sembra quasi che, pur nascendo così puro e ricco di qualità, questo tipo di GDR si tramuti tanto facilmente in una realtà “più vera della vera realtà”, ed il gioco di parole è anche questa volta decisamente voluto. Una realtà che ne esalta solo i lati negativi, frustranti, di disturbo, sviluppando persino lati deleteri alla “salute”, almeno psichica, dell’utente.
Cosa che, in parte, è vera. Quanto scritto sinora deriva dall’interpretazione ed analisi di un individuo che al GDR si interessa da molti anni, e da alcuni vive e conosce il GDRPI. E vi è sicuramente qualcosa di autobiografico in tutto ciò (potrebbe forse essere altrimenti? Come si potrebbe aver l’ardire di “giudicare” e definire qualcosa che non si conosce?). Sicuramente non negli esempi estremi qui presentati per immediatezza e chiarezza, e neppure l’autore sente di potersi annoverare fra i “patologici” del GDRPI, ma come tutti in quel clima ha interagito, e come ogni altro essere umano s’è adattato e comportato di conseguenza.
E’ altresì intenzione dell’autore, alla conclusione di questo testo, divenuto nel corso del tempo assai più lungo del previsto, sottolineare un aspetto che parrebbe essere stato ignorato sinora. E decide di farlo nelle ultime righe poiché spesso sono quelle che, alla fine di una lettura, indugiano sul palato del lettore dando il “sapore” finale, e quanto vuole esprimere è di importanza assai rilevante.
Nell’ultima parte del saggio avete notato un progressivo deterioramento, una sempre più marcata insozzatura, di due concetti ed argomenti, la fuga dalla realtà e il GDR, che in tutta la prima parte erano stati dipinti come sentimenti “puri”, o alte forme artistiche. Potrebbe persino apparire che l’autore, seguendo un proprio personale excursus paritario a quello biografico, potesse desiderare inviare come messaggio principale che il GDR, ed in particolare il GDRPI, è una realtà squallida, sibillina, indesiderabile, frequentata da persone potenzialmente instabili, e a sua volta potenzialmente causa di instabilità.
Ciò non è affatto nelle intenzioni dell’autore, che anzi seguita ben volentieri a dedicarsi a tale passione e cerca di coglierne tutti quei molteplici aspetti assai positivi e soddisfacenti, ma è lo stesso tema che egli ha scelto di trattare che presuppone non vi fosse spazio per decantar le lodi degli aspetti sittanto gradevoli del GDR. Quelli sono argomenti diametralmente opposti, che se volessero essere narrati andrebbero in un testo a sé, ma l’autore stesso non crede sarebbe testo di utilità od interesse, quando per scoprire le meraviglie del GDR e della capacità di sognare altri mondi è sufficiente il semplice provarci a propria volta.
Tutti abbiamo bisogno, di tanto in tanto, di fuggire dalla realtà, di tornare per un po’ bambini, e di sognare ad occhi aperti. Dobbiamo solo fare attenzione a non portarci appresso la realtà stessa, altrimenti, che fuga sarebbe?