Nella prefazione de Il ritratto di Dorian Gray (1890), senza dubbio la
sua opera più rappresentativa, Oscar Wilde (1854-1900) si rivolge ai
lettori per offrire loro una serie di aforismi, come di consueto
paradossali e brillanti, contenenti riflessioni sulla vita, sull’arte e
sugli esseri umani. Tutto il suo genio condensato in poche frasi a
effetto da usare per conquistare una donna o un uomo, per porre fine
a una conversazione noiosa con un’espressione memorabile, o per
guadagnare il centro dell’attenzione durante un ricevimento
importante, gremito di persone come Erskine di Traedley, “un
vecchio signore simpatico e colto, il quale disgraziatamente aveva
preso la cattiva abitudine di tacere, perché […] tutto quello che aveva
da dire, l’aveva detto prima dei trent’anni”.
Uno degli aspetti più interessanti di questi aforismi sta nel fatto che
essi riflettono da diverse angolazioni la personalità di chi li ha
composti, come fossero tanti specchi collocati intorno a un Oscar
Wilde che osserva se stesso immaginando ciò che avrebbe voluto
essere. Ragionando in termini moderni, si potrebbe dire che ogni
aforisma di Oscar Wilde è un selfie del suo autore opportunamente
modificato, in un secondo tempo, con l’ausilio di qualche
programma di editing fotografico. In effetti, le maschere che, tanto lo
scrittore quanto l’uomo Wilde, ha utilizzato durante tutto l’arco della
sua vita e che ha riproposto nell’intera sua opera, sono
numerosissime e il più delle volte inverosimili: che egli ritenesse tutta l’arte assolutamente inutile, per esempio, è un paradosso che
vira in parossismo non appena si apre Dorian Gray o The importance of
being Earnest (1895) e vi si coglie la cura profonda con la quale il suo
autore modella la parola fino a farne la tavolozza per un dipinto
elegante, dal tratteggio netto e dai colori vivi, ma soprattutto ricco di
più sfumature di quante l’occhio umano sia in grado di cogliere.
Sono proprio le sfumature quelle sulle quali è opportuno riflettere
prima di affrontare la lettura di questo elaborato che, come si evince
dal titolo, intende ragionare sul concetto di alterità e cercare di
stabilire non solo chi e che cosa è altro, ma anche da chi e che cosa
questo altro si differenzia, a partire da una serie di autori inglesi e
americani le cui opere offrono una base perfetta per un discorso il
più possibile transdisciplinare, contaminato e, si spera,
contaminante.
Talvolta si sente dire che “niente è come sembra”, ma se anche tutto
fosse effettivamente come appare, le sfumature garantirebbero
comunque una fonte di conoscenza inesauribile che proviene non
solo dagli esseri umani e dalle differenze che li caratterizzano, ma
anche dall’arte, utile o inutile che sia. È quello che credono coloro che
si occupano di ecocritica, una forma relativamente recente e piuttosto
complessa di critica letteraria, come si osserverà meglio in seguito.
Ecocritici sono coloro che ricercano, nell’ambito dei testi letterari e
dell’arte in generale, le ragioni storiche, sociologiche, antropologiche
atte a spiegare il posto dell’essere umano nel mondo, i modi con cui
questi si relaziona con gli esseri non umani e viceversa, le
motivazioni che a questi modi soggiacciono e, forse l’aspetto più
importante, le spinte educative che si possono trarre dalle letture (non necessariamente di stampo ecologista) per ridefinire le posizioni
di buona parte dell’umanità nei confronti del resto dell’umanità e del
mondo non umano. Può, verrebbe da chiedersi, un solo libro
contenere tutte queste informazioni e costituire addirittura una
spinta a una militanza concreta nel cambiare, o quantomeno provare
a cambiare ciò che si ritiene essere una stortura? E chi ha il diritto di
definire cosa sia una stortura, e sulla base di quali criteri? Sono tutti
interrogativi cui si cercherà di rispondere nelle pagine che verranno,
con la consapevolezza che parlare di rispetto per la Natura, di amore
reciproco tra esseri umani e di valore del mondo non umano è, al
giorno d’oggi, sempre più difficile. Tale difficoltà deriva, in larga
parte ma non esclusivamente, dal fatto che coloro che si occupano in
prima persona di questi argomenti scambiano talvolta la propria
battaglia per una missione “religiosa”, investendo di fanatismo e
quindi privando di credibilità alcuni ideali assolutamente
condivisibili e soltanto ragionevoli. Ad ogni modo, per riuscire a
calarsi al meglio nell’universo che si intende descrivere in questa tesi,
occorre avere ben presente che, a prescindere da sovraesposizioni
fastidiose, qualunquismo televisivo e slogan elettorali, il concetto di
alterità è qualcosa che non si può indagare senza occuparsi da vicino
di ciò che è altro dall’uomo così come chi ritiene di essere la normalità
lo intende.
Lo aveva già capito Henry David Thoreau (1817-1862), che decise di
cercare la sua normalità in mezzo alla diversità delle rive del lago di
Walden e della sua popolazione, dalle varie specie di uccelli agli aghi
di pino; lo sapeva Jack London (1876-1916), le cui riflessioni sul
significato della vita umana e del suo stesso posto nel mondo lo
spinsero a inseguire una verità troppo sfuggente per essere catturata, tanto che alla fine un John Barleycorn qualsiasi riuscì a portarselo via,
regalandogli forse un po’ di quella pace che aveva cercato invano per
tutto l’arco della sua breve vita. Questo elaborato parla di loro e di
molti altri, di diversi sguardi sul mondo, di filosofie dell’ambiente, di
spinte e spunti educativi che possono derivare anche da opere dalle
quali non lo si crederebbe possibile, come per esempio la saga di
Harry Potter di J.K. Rowling o i brani e le scelte musicali degli autori
più vari, da Fiorella Mannoia ai Mumford & Sons. Perché la
ricchezza che proviene dall’alterità è, molto spesso, più grande
quando meno palese, più incisiva quando non immediatamente
percepibile, quando, cioè, si pone meno l’accento sul suo aspetto
differente e ci si lascia contaminare senza alzare quelle classiche
barriere fatte di identità traballanti, fedi religiose rimaneggiate ad
personam, scarsa curiosità, paura del diverso e disincanto.
Re-incantarsi è condizione necessaria per cogliere il senso profondo
delle opere che verranno citate in questa tesi, per riuscire a
rielaborarne i concetti e magari trarne spunti per tentare di
migliorare il nostro rapporto col mondo. Certo, oggi è molto difficile
re-incantarsi: la società è sempre pronta a bollare chi ci prova come
immaturo e incosciente, anche se nella maggior parte dei casi si
limita semplicemente a non prestargli particolare attenzione.
Archivia come un rigurgito adolescenziale quella che invece può
essere una crescita critica e spirituale, un desiderio profondo di
trovare ovunque connessioni nascoste con il circostante. La spinta al
re-incantamento ha quindi, come di consueto accade, i suoi pro e i
suoi contro, giacché da un lato rischia di creare dei disadattati, ma dall’altro rischia invece di fornire agli esseri umani quegli input
necessari a rinegoziare il proprio rapporto con il mondo e cercare di
preservarne la ricchezza, ognuno secondo le proprie possibilità.
Chiunque di noi, in sostanza, dovrebbe pensare a se stesso come al
colibrì di una famosa favola africana, che voleva spegnere l’incendio
della foresta una goccia alla volta, quanto il suo piccolo becco poteva
contenere. Proprio con la leggenda del colibrì si conclude questa
prefazione e si passa al cuore vero e proprio dell’elaborato,
ricordando, come ha scritto Oscar Wilde, che “l’istruzione è cosa
ammirevole, ma ogni tanto ci farebbe bene ricordare che non si può
mai insegnare quel che veramente vale la pena di conoscere”.