Come ci ricorda Roland Barthes i racconti del mondo sono innumerevoli e
per esprimerli vi è una varietà prodigiosa di generi letterari, dal mito alla
favola, dal racconto all’epopea, dalla storia al dramma, dalla lirica alla
pantomima (solo per citarne alcuni), e tutte queste forme quasi infinite nelle
quali si realizza il racconto sono presenti in tutti i tempi, in tutti i luoghi e in
tutte le culture. Tutte queste non sono altro che modalità diverse di raccontare
storie.
La teoria narratologica che riguarda l’interpretazione della tradizione
narrativa di R. Scholes e R. Kellogg, giusto per fare un esempio, individua
diversi esiti narrativi per l’epica: gli autori sostengono che l’epica può
percorrere vie alternative e sfociare di volta in volta nel racconto sacro,
leggendario, fantastico o popolare. Ora, il concetto che non esistono generi
letterari puri è un dato di fatto da tempo acclarato, basti pensare alle frequenti
infiltrazioni elegiache presenti nell’epica virgiliana o ai numerosi spunti lirici
che intervengono in quella omerica.
La narrativa tolkieniana, che da sempre è stata definita fantastica, a uno
sguardo più approfondito risulta invece essere molto più vicina al paradigma
epico, poiché numerose sono le costanti tematiche e narrative che si riscontrano sia nelle opere “epiche” per definizione, l’Iliade e l’Odissea, sia
nel romanzo del professore di Oxford.
Non voglio dire che Tolkien si sia servito dei poemi omerici come fonte;
sicuramente li conosceva e apprezzava, come afferma lui stesso a più riprese,
mentre è plausibile che echi di alcune vicende di questi siano riaffiorati man
mano che andava costruendo il mondo e le vicende della Terra di Mezzo.
È notevole invece che alcuni episodi, personaggi e temi mitici si ritrovino, a
volte molto simili o quasi identici altre con differenze più o meno marcate,in
entrambe le opere, come se siano state filate lungo un medesimo filo che,
attraverso il tempo ha dato vita a luoghi, immagini, personaggi, figure
emblematiche, simboli ed eroi, forse sogni ed anche mostri, perché tutto
questo si trova in un’ opera che sia genuinamente epica, che ritornano sempre
uguali a se stessi, poiché narrano le vicende degli uomini e del mondo, dèi e
semidei, demoni e oscurità, e che per farlo utilizzano lo stesso linguaggio,
quello del mito.
Il mito possiamo forse intenderlo come uno straordinario e variopinto arazzo,
intessuto come si intesse un canto, melodioso e malinconico, eroico e
sublime, afflitto e accorato, triste e splendente, come la vita. Come la tela di
Penelope, che viene tessuta e disfatta proprio perché si possa tornare a
raccontare e ri-raccontare e soprattutto ad ascoltare di nuovo.
Così in un’opera moderna noi riascoltiamo il messaggio dell’antichità, e
l’opera “antica” si rivitalizza e rinnova spinta al confronto, si apre ed espande
a nuove interpretazioni e nuove visioni: la fecondità di questo interscambio è
determinante. Nell’antico il nuovo trova solide basi e fondamenta robuste
senza le quali non potrebbe mai innalzarsi alle vette più alte; l’antico rivive irrorato di nuova linfa vitale senza la quale col tempo, credo, verrebbe a
sfiorire, obliato.