Come gli altri diventino scrittori non lo so, però so dove ho imparato io.
Non è una cosa di cui parlo facilmente, perché di solito quando dico la verità i miei interlocutori già alla terza frase cominciano a pensare di aver davanti una persona strana, forse anche un po' pericolosa, e mi accorgo che smettono di prendermi sul serio. Non è bello non essere presi sul serio, così spesso preferisco inventarmi una risposta rassicurante, qualcosa tipo “scrittori si nasce”, anziché infrangere con la sincerità lo stereotipo dell'artista come membro di una razza eletta; ma la verità è molto diversa.
Non è solo perché a scrivere si impara che non si può dire che scrittori si nasce. La narrazione è un'attitudine relazionale che si sviluppa con grande fatica, buoni maestri e una docilità alla disciplina che raramente chi non scrive è pronto ad associare concettualmente all'atto creativo; la dialettica tra medio ed eccezionale, tra genio e normalità, impone che le professioni che hanno a che fare con l'arte siano molto più apparentate con la sregolatezza che con il rigore. Invece io ho imparato a raccontare storie per iscritto in una scuola severissima dove la disciplina era un parametro non negoziabile, pena l'esclusione dalla narrazione. Il mio master in scrittura l'ho fatto dal 2000 al 2007 dentro a una comunità virtuale di gioco on line. Era una cosa molto lontana dai giochi dalla grafica cinematografica che già allora tenevano incollati gli adolescenti alle tastiere; non c'erano avatar di impressionante realismo come in World of Warcraft né trame chiuse dove le possibilità narrative, per quanto numerose, erano comunque limitate a quelle che il programmatore aveva previsto per lo sviluppo di quella vicenda, come avveniva in Final Fantasy.
Il posto dove giocavo io era molto più simile alle partite di Dungeons & Dragons, ma senza i dadi. La prima volta che ci entrai mi trovai davanti a una chat bianca che mi fece lo stesso effetto che mi fa oggi la pagina vuota quando sono in procinto di cominciare un romanzo. Il diktat a cui dovevo obbedire non era molto diverso: la storia che volevo creare là dentro avrebbe avuto dignità di lettura solo nella misura in cui fossi stata capace di renderla appassionante con la sola parola dentro a un sistema di regole coerenti dall'inizio alla fine. Lot – così si chiamava la città virtuale – era frequentata da più di quarantamila giocatori che la abitavano con i loro personaggi 24 ore su 24; di regole ne aveva un'infinità e solo un centinaio di giocatori era così bravo da riuscire a fare narrazione rispettandole tutte e allo stesso tempo tenendo alta la passione del racconto: ogni loro giocata era seguita in silenzio da decine di giocatori/lettori che cercavano di carpirne la tecnica. Ci misi pochi giorni a capire che se volevo essere una di quei cento dovevo cominciare bene sin da subito.
In posti come quello il momento dell'iscrizione è già un atto narrativo, perché il personaggio va costruito indicando non solo sesso, allineamento morale e razza, ma anche il background. Lot non faceva eccezione: prima ancora di cominciare a giocare dovevi essere già stato capace di immaginare la storia pregressa del tuo personaggio in modo tale da farlo interagire coerentemente con il resto degli abitanti di Lot, che obbedivano a un'ambientazione medieval-fantasy molto vicina a quella tolkeniana. La fantasia trovava in quello il suo primo limite: poiché il gioco da neonati a Lot non era previsto, la maggior parte dei personaggi risultava arrivata lì in seguito all'uccisione dei propri genitori, alla distruzione totale del suo villaggio e alla perdita fatale della memoria e della strada. Far esistere un personaggio in un mondo di orfani dismemori e traumatizzati si presentò sin da subito come una sfida narrativa molto stimolante e giocare in tempo reale con decine di altre persone mi ha costretta a ricalibrare continuamente la mia visione narrativa con quelle degli altri.
Scelsi di giocarmi un'elfa, le diedi un nome che ora qui non ripeterò, le diedi una storia decisamente meno tragica della media e per qualche settimana mi limitai a guardare quelli bravi davvero, i giocatori di lunghissimo corso che si muovevano con disinvoltura dentro a una rete di relazioni narrative complessa e affascinante. Per giocare coerentemente da elfa entrai in un clan di altri elfi e nell'arco di tre anni imparai accettabilmente sia il Quenya che il Sindarin, le due varianti dell'elfico codificate da Tolkien stesso. Quando decisi che il mio personaggio doveva diventare mago studiai in gioco gli incantesimi per oltre un anno e mezzo, superando gli esami con i miei superiori e acquisendo dimestichezza con la psicologia del ruolo. Le costruii una vita sentimentale complicata e sofferente e le feci intrapprendere una carriera politica che nell'arco di quattro anni la portò a guidare uno dei clan elfici più grandi della comunità.
Scoprii che la malattia dei giocatori lottiani era l'insonnia: se volevo giocare in ruoli complessi, la notte era l'unico tempo libero che avessi. Ammetto che credo sia stato proprio per questo che a un certo punto della mia vita ha cominciato a sembrarmi interessante il lavoro del portiere notturno. Là dentro ho conosciuto insospettabili narratori di mestiere, ma anche talenti che non hanno mai scritto una riga fuori da lì perché facevano il medico, la studentessa, il camionista, la pubblicitaria, il programmatore o la mamma; però, qualunque cosa fossimo di giorno, la notte eravamo tutti scrittori. Nella fase finale della mia avventura on game, quando ormai giocavo da sei anni, ho rinunciato al gioco attivo e mi sono dedicata a costruire le “quest”, le storie che dovevano giocare gli altri. Oggi raccontare è il mio mestiere, ma è a Lot che ho imparato che la narrazione è un gioco dove vinci solo se riesci a convincere l'altro a stare nella storia insieme a te fino alla fine, a costo di dimenticarsi che il sole sta per sorgere.
Nota dell'Autrice: Questo l'ho scritto per Saturno (il supplemento de Il Fatto Quotidiano) del 21 ottobre 2011.