La televisione mostra eventi, fatti, racconti attraverso uno schermo che si sostituisce ai nostri occhi nella visione dal vivo, nell’esperienza diretta; pare che la televisione sia una forma più immediata di apprendimento, veloce, e poco impegnativa. É la “visibilità” a prendere il sopravvento, fino ad imporsi come punto di riferimento forte e ineludibile della nostra cultura. La forza di penetrazione della televisione e la sua capacità di fissare modalità esistenziali e comportamentali è dirompente, tanto da vantare un’assoluta centralità nella vita quotidiana, dai primi anni formativi, all'età della senescenza: bambini e anziani, non a caso, sono gli utenti più assidui delle trasmissioni televisive; è evidente riconoscerla, dunque, come il principale medium educativo e ricreativo a livello familiare. Si perviene, in tal modo, a una “dislocazione” della conoscenza, a una sorta di conoscenza di seconda mano, che si definisce nell'apparire piuttosto che nell'essere. La realtà sociale, quindi, spesso è percepita a seconda delle immagini “di tutti”, condivise da tutti. Nel periodo in cui, giornalisti, educatori, psicologi si sono schierati contro gli anime giapponesi è avvenuto a mio parere un’oscillazione o quasi una perdita del punto di vista di partenza: la televisione non è una maestra, non deve educare, la televisione informa ma mai in modo neutrale, perché presuppone sempre un punto di vista, quello dei direttori dei telegiornali, quello dei montatori e doppiatori dei cartoni animati. Non si può negare, che la televisione rappresenta nell’infanzia e nell’adolescenza il veicolo migliore di adattamento all’ambiente, ma non bisogna perdere di vista la questione che ad educare e a traghettare verso un approccio razionale e critico delle risorse catodiche deve sempre essere la famiglia. I genitori non dovrebbero permettere che il loro ruolo venga soppiantato dalla comunicazione televisiva, e le scuole non dovrebbero entrare in competizione con l’appeal televisivo. Non bisogna permettere che l’unica verità a cui si assiste corrisponda all’unica verità in cui credere, alla verità oggettiva: le verità vanno indagate e criticate, senza entrare nel circolo perverso per il quale “conoscenza e informazione” sono sinonimi. Non bisogna, che i bambini si riducano a meri osservatori, non bisogna far credere che la verità sia solo quella mediata. “Il carattere ‘realistico’ delle immagini televisive e la familiarità dello spettatore con le convenzioni del medium danno spesso l’impressione che la TV sia una sorta di ‘specchio’, di ‘finestra sul mondo’, cioè un dispositivo ‘neutro’ in presa diretta con il reale. Invece, quello della televisione è un vero e proprio linguaggio, che non riflette la realtà ma la ‘ri-crea’, e che produce significati appoggiandosi a sistemi di regole”. Se la televisione non riflette la realtà ma la ricrea, la filtra, la interpreta, è necessario che lo spettatore sia a conoscenza delle regole attraverso le quali ciò si attua, dato che maggiore è la sua competenza, minore sarà la fiducia incondizionata rispetto ai messaggi che gli vengono proposti. “Questo è vero per tutti i programmi che prevedono la presenza di persone in carne e ossa; nel cartoon, l’implicito carattere di irrealtà (legato al proprio linguaggio, dunque alla forma in cui si presenta e a quello del medium a cui si appoggia), costringe lo spettatore alla ‘sospensione del dubbio’, all’abbandono della ricerca di una qualsivoglia plausibilità in quanto ‘in un cartone animato tutto è possibile’, anzi la regola basilare è proprio lo stravolgimento di qualsiasi legge umana”. Se l’adulto risulta più competente, il bambino non è invece in grado di distinguere la realtà dalla finzione; dunque il feedback non previsto nella comunicazione televisiva deve essere il dialogo interfamiliare e intersociale, tra adulti e bambini, da compiere in modalità dialettiche di confronto costruttivo, senza permettere l’isolamento e la solitudine davanti allo schermo televisivo, specie dei più giovani, che il più delle volte sostituiscono agli hobby giovanili e ai doposcuola, la visione ad oltranza della televisione. Quest’ultima, nelle sue funzioni ludiche nei confronti dell’infanzia ha suscitato e suscita continue polemiche, nel caso degli anime bisogna considerare che in paesi come l’Italia, esiste l’idea che i cartoni animati siano esclusivamente un prodotto per bambini: da anni la querelle sulla violenza degli anime si fonda su questo fraintendimento; che alcuni temi proposti in alcuni disegni animati giapponesi siano violenti o narrativamente complessi, e quindi non adatti ad un pubblico infantile, è argomento condivisibile, per un motivo alla radice: gli anime creati in Giappone sono differenziati per fasce d’età e proposti nelle televisioni nipponiche in ore serali in cui si presuppone si stia cenando con la famiglia; in Italia, gli stessi anime vengono messi in onda nel primo pomeriggio o in fascia protetta e di conseguenza visibili a tutti. Il segreto sarebbe guardare al Sol Levante e quindi ai prodotti culturali giapponesi quali gli anime “con gli occhi a mandorla”, guardare senza perdere il punto di vista di partenza, il punto di origine di tali narrazioni, guardare con gli occhi di chi si sforza di comprendere l’estraneo, lo straniero; in fondo, i disegni animati giapponesi sono prodotti d’importazione, importandoli se ne accoglie anche quell’”aura” estetica, semioticocomunicativa del contesto d’origine, stilemi percettivi ineliminabili; resta a noi comprenderli e sfruttarli per il pubblico italiano. “Il principio è che inibire o censurare la fruizione della TV produrrebbe effetti contrari a quelli voluti, per cui meno limiti si mettono meglio è, perché comunque sarebbero destinati a fallire e nessun genitore sarebbe in grado di fare il guardiano dei consumi televisivi del proprio figlio. Ognuno impara a gestire la televisione esplorandola e conoscendola direttamente”. Per i bambini che trovano nei genitori e negli insegnanti disponibilità a condividere le proprie visioni televisive, l’esperienza televisiva acquisterà un significato diverso dal solito “guardare la tv”. Quando tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta è decollato lo sbarco in Italia dei cartoon giapponesi, si è detto di tutto; il problema era che gli anime rompevano drasticamente le categorie estetiche tradizionali del medium animato: all’interno del cartone made in Japan il “potere” era nelle mani di bambini, che vivevano drammi e conflitti umani interiori; naturale fu allora che i telespettatori-bambini, fossero perfettamente a loro agio “con un audiovisivo alternativo dove il movimento, le sonorità, i corpi avevano un ‘linguaggio’ decisamente alternativo rispetto a quello tradizionale”. Potere ai bambini, dunque, e potere alle immagini: spettacolari, fantastiche, da sogno. Esistono nel rapporto bambini/televisione vari grado di responsabilità: “della famiglia nel gestire la televisione nell’ambiente domestico […], responsabilità politiche che riguardano il quadro legislativo e le scelte di politica culturale che investono la tv […], ci sono responsabilità della scuola, che ha il compito di alfabetizzare e di trasmettere strumenti e competenze culturali”, disponendosi a trattare i media come portatori di linguaggi e messaggi nei confronti dei telespettatori. Quanto del loro tempo i genitori dedicano a comprendere le passioni televisive dei loro piccoli figli? Spesso la “visione assistita” si riduce ad una semplice compresenza passiva del genitore senza spiegazioni su quanto si stia guardando11. Spesso i bambini, consumano televisione in assenza di adulti e in maniera solitaria, magari nella loro cameretta. E’ cosi, che per i genitori risulta più facile censurare che offrire strumenti per comprendere quello a cui si assiste, in modo che nelle visioni successive il bambino possa essere televisivamente più competente. Nei bambini il grado di consapevolezza verso ciò a cui si assiste è basso, in loro è assente un’elaborazione critica di diverse interpretazioni possibili che potrebbero disambiguare uno stesso messaggio; un bambino deve essere stimolato e sollecitato a criticare, imparare, discutere sui prodotti narrativi, siano essi dei racconti scritti piuttosto che dei testi animati filmici. I giudizi di “bello” o “brutto”, “buono” o “cattivo” non sono universali, ma opinabili in base a valutazioni personali, e ad un bambino dovrebbero offrirsi gli strumenti giusti per una comprensione astrattiva dei codici e dei messaggi. Quando si discute di “presunta violenza” nei prodotti mediali bisogna sempre far rife rimento alla violenza “nella storia narrata”: “se un genitore si limita ad os servare scene di esplosioni, di scontri o di ferimenti, giudica la storia vio lenta perché decontestualizza le scene dalla situazione narrativa; l’anime invece potrebbe essere solo movimentato o qualche volta anche cruento, senza per questo lasciare lo spettatore in balia di contenuti ambigui, anzi accompagnandolo nella trama”.